La rivoluzione (green) non è un pranzo di gala
Ci sono eventi gastronomici che ti lasciano niente, altri che gettano un seme. Ecco, dall’European Food Summit di Lubiana sono tornato inseminato. Gli ingredienti per farne una cosa non banale c’erano: il congresso diretto da una delle cuoche più radicali del pianeta – Ana Roš – e dal più eclettico degli agitatori gastronomici – Andrea Petrini, l’inventore di Genilaz, per capirci – era tutto incentrato su cuochi/produttori “anti-sistema”, cioè liberi, organici, naturali, no-logo, esocentrici, giovani, ruspanti e belli. Persone coraggiose, dico sul serio, che hanno fatto scelte estreme, aperto ristoranti e fattorie in posti sperduti, che dormono con 14 gradi in casa, che d’inverno rimangono isolate sotto la neve.
Tuttavia, durante una delle presentazioni in stile TED, il Tom Wolfe che mi dorme in petto si risveglia. E mi pervade potente la sensazione immortalata dallo scrittore americano quando nel 1970 – invitato a una festa di raccolta fondi per le Pantere Nere a casa del direttore d’orchestra Leonard Bernstein e della moglie attrice e attivista Felicia Montealegre – coniò il termine “radical chic” per definire l’aristocrazia progressista. Sensazione che aumenta quando viene raccontata la storia della chef Colombe Saint-Pierre, cuoca canadese tostissima il cui ristorante non è sopravvissuto alla pandemia. In breve: Saint Pierre ha costruito un locale con oggetti di recupero – pallet per tavoli, barili per fornelli, container –, utilizzando solo materie locali, produttori locali e tutte le cose organic che conosciamo. È stata così brava che “Chez St-Pierre” è diventato quel che si dice un “destination restaurant”, cioè la gente era disposta a fare tanti chilometri per raggiungerla. E perché ha chiuso? “Perché con la pandemia senza i clienti di lungo raggio – in arrivo da Singapore o dall’Europa – non poteva più sopravvivere.”
Ecco, ormai Tom Wolfe mi appare accanto, come il Grillo Parlante, con il suo solito vestito bianco e mi dice: “ma come? Uno progetta un locale rispettoso dell’ambiente, della natura, che riusa gli scarti, che ha le materie prime a chilometro zero, ma senza i clienti provenienti dall’altra parte del mondo non sopravvive? Ma non la senti la potente contraddizione tra un ristorante che valorizza tutto del proprio territorio, tranne i clienti? Non lo conosci il detto di Mao Zedong: la rivoluzione, anche quella sostenibile, NON è un pranzo di gala? NON LO È. O fai la rivoluzione, o fai il pranzo di fale. Aut aut. L’aereo con cui è arrivato il danaroso cliente hongkonghese disintegra in un amen i risultati di un anno di buone pratiche” (sì, lo so, Tom Wolfe non avrebbe mai detto “buone pratiche”, ndr).
Poi finalmente, come in Venom, riesco a ricacciare Tom Wolfe nel suo tugurio, e penso che quel che conta è la testimonianza: anche la giovane Greta macina ore di treno per parlare a persone arrivate ad ascoltarla in jet e che la sera sciaboleranno Cristal. Nel mondo globalizzato, solo chi comunica a una grande platea può provare a cambiare le cose. Gli apocalittici sono destinati alla marginalità, gli integrati allo status quo: chi davvero vuole fare il cambiamento, devo (faticosamente) barcamenarsi tra questi e quelli.
Dunque, personalmente ad Ana Roš e Andrea Petrini dico grazie, perché a Lubiana ho capito una cosa (il seme che mi son portato a casa): i ristoranti di alto livello sono certo “destination” ma devono anche trovare il modo per fare pace con i clienti del proprio territorio. Anche con le cerimonie, che tanti snobbano, anche con i panini (come i burger di Redzepi che durante la pandemia portarono nel suo giardino migliaia di danesi che mai erano potuti entrare al Noma). Tutti al Summit di Lubiana erano convinti che il senso di comunità è fondamentale; lo penso anche io, che vivo nella terra di Slow Food. E una comunità è fatta di produttori, trasformatori, cuochi, ma anche di clienti. Un grande ristorante che non accoglie i clienti locali certo potrà fare i pranzi di gala. Ma non la rivoluzione.